La prima volta che ti consegnano la bicicletta, è facile: hai le rotelle e pedalare è solo un altro gioco, basta mandare i piedi su e giù. Tu non devi preoccuparti di niente, perché tanto le rotelle ti sorreggono e fanno loro tutto il lavoro.
Un giorno poi qualcuno decide che è ora di toglierle.
Fin dal primo momento capisci che il tempo degli scherzi è finito. Cadi, sbucci, ti fai male, piangi. Tu appartieni a quella generazione di figli i cui genitori non diventano isterici se ti devono spalmare un po’ di mercurocromo sulle ginocchia, anzi pensano che sia pure educativo e ci ridono su. Tò, tieni la caramella, bacino sulla bua e passa tutto. Dai che domani non farà male.
Quindi tu non ci vedi niente di strano. Ingiusto forse, ma non strano. Cadi, ti sbucci, sanguini. Cose della vita.
L’equilibrio stenta un po’ ad arrivare, ma se sei abbastanza fortunata e testarda, il tuo corpo troverà prima o poi quella combinazione di tensione muscolare e leggi della dinamica, che tengono in piedi te e la bicicletta il tempo sufficiente a provare l’ebbrezza di cinque pedalate messe in fila.
Da lì in poi è tutta discesa.
Cominci a pedalare lungo i pendii, giusto per sapere cos’è la velocità. Cerchi i dossi per fare le impennate. Impari a fare le impennate senza i dossi. Vai in cerca del ghiaietto per fare le sgommate. Impari a fare le sgommate di traverso. Scendi dalla bici in corsa. Pedali da in piedi. Usi una mano sola.
Da un giorno con l’altro ti senti dio.
Non è arroganza, è pura costatazione dei fatti: fino a un mese prima sembravi un patchwork, ora potresti sfrattare un acrobata cinese dal suo carrozzone al circo. Ti meriti un po’ di autostima.
Ed è proprio questo sentimento di autocompiacimento che ti fa adocchiare la bici di tua madre. Chissà com’è usare una bici da grandi, pensi. E perché no?
Così un pomeriggio la tiri fuori dal garage. Non sei sola: hai chiesto aiuto a un amico più grande perché non sei troppo sicura che ce la puoi fare e hai bisogno di sicurezza. I tuoi gomiti sono ancora ruvidi e sulle ginocchia le chiazze bianche ti ricordano che la bottiglia del mercurocromo è piena e pronta all’uso dentro l’armadietto delle medicine. Inoltre è chiaro che stavolta, se cadi, potrebbe non andarti così bene.
Non tocchi terra, arrivi a malapena ai pedali e al manubrio e solo tenerla in piedi ti costa un bello sforzo. Però tu sei un dio sulla tua bicicletta del formato giusto e quella è solo un’altra sfida.
La via è lunga, difficile farla tutta la prima volta da sola. Perciò chiedi all’amico se ti può tenere diritta la bici mentre tu impari a pedalare. Provate una volta. Due. Ok dai, facciamo tutta la via. Va bene.
Devi arrivare quasi fino in cima per capire che ti aveva mollato già alla terza pedalata. Ti volti e lo vedi dietro di te, che corre per raggiungerti con un grande sorriso stampato in faccia. Tu non sai se ridere o gridare, ma a chi importa? Hai domato la bici grande, ora sei un grande dio.
Alla fine succede: tu cresci e la tua bici deve crescere con te. Abbandoni la biciclettina gialla dall’assetto ribassato che ormai non ti regge più, per una Graziella ridipinta e con le gomme nuove, ripescata in chissà quale garage di chissà quale amico o parente. Proprio come la prima. Tu ne vorresti una nuova ma che ci puoi fare? Almeno ce l’hai. Tu ti fai onore tra salite e discese e certo il cestino è proprio comodo per andare a scuola, ma tu sai che quella pittura è una maschera, che quella era la bici di qualcun altro prima di te e che è ancora sua. Stringi i denti, aspetti il momento giusto e finalmente ce la fai: avrai la tua bicicletta nuova.
Non sarà una bicicletta qualsiasi. Avrà le marce, un sellino più snello, nessun cestino e le ruote spesse e ruvide che fanno ben presa sul terreno.
Pronti, partenza, via. È ora di conquistare anche lo sterrato.
La nuova bicicletta ha un baricentro molto più stabile. È più pesante, certo, devi imparare la differenza tra i rapporti, salire e scendere da sella è diverso e un po’ difficile, perché lei è ancora troppo alta e tu troppo piccola, ma non ti dispiace fare fatica, perché è una bici da grandi ed è solo tua.
Così finisce che impari a pedalare sui sentieri e sull’erba, a fare i gradini delle scale in discesa e a scendere e salire in corsa, di nuovo, nel nuovo modo e andare con una mano sola è molto più facile. Tu non sei solo un dio, sei l’universo e tutto quanto. Pian piano cresci e diventi a misura della bici. Anzi no, è la bici a misura tua. Non dimenticarti che sei un dio, l’universo e tutto quanto.
Però ti manca ancora qualcosa. Ci metti un po’ a capirlo e lo fai solo quando lo trovi per la prima volta davanti a te: piana, dritta, larga e poco trafficata, una strada che sembra una piazza.
Andiamo senza mani?
È la tua bici che te lo chiede e chi sei tu dirle di no? Ok, sei dio, ma gli dei non hanno paura.
Op. Una pedalata a due centimetri dal manubrio. Op, un’altra a cinque centimetri dal manubrio. Op.
È difficile e non ricordi di averci messo così tanto a imparare ad andare senza rotelle. Credevi sarebbe stato più facile.
Per la prima volta da anni la tua bici perfetta sbanda sotto di te e il tuo corpo non risponde come vorresti. Sei rigida, le ginocchia vanno in ogni direzione per tentare di trovare un equilibrio, le mani si agitano confuse perché non sono al loro posto. Non sei più, l’universo e nemmeno dio, sei un burattino sgraziato e inutile.
Passano i giorni. Quasi ci rinunci perché, diciamolo, siamo un po’ troppo grandi per farci vedere in questa maniera ridicola in giro e noi eravamo dio. Anzi no, l’universo e tutto quanto. Non possiamo proprio farci vedere in giro così.
Ma che universo sei ,se non sai andare senza mani?
Sia maledetta la voce interiore.
Ce la fai un giorno che nemmeno ci stavi provando seriamente. Eri svogliata e senza concentrazione. Ti eri ritrovata sulla strada/piazza e di eri data lo slancio dal manubrio. La schiena era dritta, le ginocchia in asse. Hai fatto dieci metri senza battere ciglio. Ti sei affrettata a tornare sul manubrio per paura di cadere ma no, ce l’avevi proprio fatta. Allora lo rifai. Subito.
Ed ecco, la magia si completa. La schiena, dritta, si rilassa. Le braccia si distendono tranquille lungo i fianchi. Le gambe e i tuoi addominali controllano interamente la tua corsa, hai la precisione millimetrica del tuo baricentro. Puoi curvare. Nell’universo, la vita si è appena formata.
Andare senza mani era la tua ultima sfida: ormai puoi fare tutto, sei pronta a ogni evenienza.
Così parti per la vita, fiduciosa in te, nel tuo corpo, nella tua esperienza. Sei un creatore e sei forte. Perciò la prima volta che ti buttano giù mentre pedali tranquilla con il solo aiuto dell’ombelico, a momenti non ci credi. I tuoi nervi devono trasportare il messaggio al tuo cervello andata e ritorno due volte prima che tu ti renda conto che sì, sei caduta. Sei a terra e ha fatto un male del diavolo. Ahia.
In quell’attimo, smarrita, cerchi il mercurocromo. Dov’è? E dove sono mamma e papà? Dove sono i cerotti? Posso avere una chicca ora?
Ma non ci sono cerotti, né disinfettanti o genitori pronti a prenderti e dire: ecco, prendi la caramella. Bacino sulla bua e passa tutto. Domani vedrai, farà meno male. Andrà tutto bene.
Non andrà tutto bene. Tu lo sai. La tua bici lo sa.
È una verità universale ma nessuno si era mai degnato di spiegartela.
Dannata la filosofia della furbizia che va imparata incarnandosi a sangue.
Così passano gli anni, tu continui a cadere e rialzarti, ogni volta sempre con più fatica. Però hai imparato una lezione: in bici senza mani non ci vai più. Anzi, non vai proprio in bici. Andiamo a piedi che è meglio. L’autobus solo a giorni alterni che non ci fidiamo di chi guida. Chi ha intenzioni bellicose stia alla larga, grazie o se la vedrà grigia. Ecco.
Arriva poi il giorno in cui le ginocchia di macchie bianche non ne hanno più e i gomiti sono ruvidi ma perché sono gomiti e hanno visto altro oltre all’asfalto. Hanno visto le bruciature da palestra e lo sfregamento contro le lenzuola. Si sono rotolati sul pavimento e nella terra, contro i tronchi e i sassi. Forse sono quelli che si sono i divertiti di più. Non te lo ricordi quasi più com’è cadere dalla bici in corsa. Davvero sei caduta? Dai, non ha fatto così male.
Nella tua beata dimenticanza pensi: ma se riprendessi ad andare in bicicletta?
Scopri che ti piace ancora. Ti piace così tanto che decidi di rifare subito tutto quello che facevi quando eri piccola. Quindi cominci, ma le sgommate non le fai perché dove sei ora il ghiaietto non c’è e poi era solo per atteggiarsi. Non vai nemmeno senza mani, perché qui le strade sono trafficate hai bisogno che i tuoi riflessi rispondano come si deve. Stessa cosa per cuffiette con la musica. Non sali più sul marciapiede in corsa perché le strade sono larghe, la gente parecchia e quella non è la tua bici: non regge le buche, figuriamoci gli scalini. Ad andare senza mani ci provi, ogni tanto, quando non sei stanca. Ci provi ma non ci riesci, perché non è la tua bici, perché ha un baricentro strano e trema tutta come la lasci. Ok, lasciamo stare.
Però pedali.
Veloce, spedita. Conosci la strada. La riconosci per averla percorsa tante volte nella tua testa, in sogni che nemmeno ti ricordavi di avere fatto. Sogni belli che ora sono molto più sbiaditi della realtà, perché questa è vivida e colorata, è aria fresca sulle guance e polmoni attivi, è euforia e gioia.
Ti lasci trasportare.
E poi vai a sbattere.
Non hai capito dove. Non hai capito contro cosa. Sai solo che prima c’era la luce e tutto d’un tratto s’è fatto buio. Ti aggiri confusa sul luogo dell’incidente senza ricordare la strada per tornare a casa anche se sai perfettamente dov’è.
Non eri mai andata a sbattere. Ti eri ribaltata, caduta di lato, impigliata in rovi boschivi, scivolata, caduta all’indietro, ma a sbattere no, mai.
Sei fortunata, qualcuno che ti consola stavolta c’è. Ti mette il disinfettante sulle ferite, ti trova un cerotto, ti dice che andrà tutto bene, ma non è la stessa cosa, perché sia tu che lui siete cresciuti e sapete che il giorno dopo la ferita farà ancora male e che le caramelle non bastano a tirare su di morale. Non quando le ossa sono ancora squassate dal colpo e i nervi tremanti per lo spavento.
Sì le cose andranno meglio, ma ci sarà sicuramente un’altra buca in cui cadere, un dosso su cui sbandare, un muro contro cui sbattere. La furbizia si è incarnata e l’esperienza si è fatta. È un mondo ciclico e non c’è scampo.
Però tu hai ancora la tua bici. La usi, ogni tanto, per aggirarti di qua e di là. A volte pedali furiosa per seminare o raggiungere chissà che. Altre ti prendi il tuo tempo, perché il panorama è bello e se non altro è rimasto quello da godere.
Poi una sera, dopo che hai cambiato il cerotto e preso un’altra caramella, torni in bicicletta nel buio tra i lampioni e arrivi sulla strada davanti casa, che è larga e un po’ in discesa, poco trafficata, con qualche tratto senza buche e decidi: ci riprovi.
Op. Uno, due. Op. Unoduetre. Op.
La schiena si rilassa. Le braccia si distendono. L’ombelico curva. Tu piangi.
Sai ancora andare senza mani. Su biciclette non tue. In mezzo alle buche.
Dovunque andrai, a quanto pare, lo farai in bicicletta.